T E S T I (-VOCI-)
Carlo PESCE -2009 - Un quindicenne
rinchiuso in CELLA
Marisa
VESCOVO – 2005 – Studio Vigato - Alessandria
Claudio
RIZZI – 2004 – Museo Civico Bodini – Gemonio (VA)
Maurizio
SCIACCALUGA – 2002 - Galleria M.Cilena - Milano
IL
SECONDO DORMIENTE: GIANNI CELLA
Marisa
VESCOVO – 2005 – Mostra Studio Vigato - Alessandria
L’impegno politico dell’arte non è una novità del ventunesimo secolo, è dai tempi di Platone e del suo dialogo “La Repubblica”, che si discute su quali immagini accettare all’interno della città e del lavoro, e quali invece distruggere. La posta in palio è sempre stata altissima : quali simboli scegliere come punto positivo di unione delle varie società. Nell’era della proliferazione dei media della comunicazione sembra che l’egemonia dell’arte nella produzione di immagini simboliche si sia persa. Viene glorificato il simulacro, magari rallegrandosi di tale esaltante scoperta. L’abolizione completa del senso produce lo stesso effetto dei sistema totalizzanti e della loro ferrea, ordinata, concatenazione di senso: l’universo dell’identico, dell’omogeneo, e del sempre uguale, dell’omologazione generale di tutti i particolari e di tutti i dettagli.
Gianni Cella con il suo lavoro attuale non procede secondo un disegno lineare, ma si muove attraverso la diversità delle tecniche, tra pittura e scultura, cos’ la sua produzione non può essere “racconto”, ordinato in una successione di temi e di iconografie, ma si può parlare di un catalogo elle ragioni, che elargiscono sostegno, identità, e significato, alla sua vita di artista
Una forma d’arte questa capace di piacere a Nietzsche, il quale amava un’arte “ondeggiante, danzante, irridente, fanciullesca”, che ci è tuttora necessaria per non perdere quella libertà sopra le cose che la nostra mente esige da noi, non distinguendo chi gioca dal gioco stesso. Questo sguardo è quello di Cella. Uno sguardo che nasce da una visione critica del mondo, quindi è anche lo sguardo delle cose che non cercano assoluti, bensì vogliono insinuarsi dentro la carne viva del presente. L’humor caldo, surreale, irridente, che l’artista cerca nei miti e negli stereotipi della società spettacolo che popolano il suo mondo, sottolinea l’inadeguatezza dell’uomo moderno a vivere il “qui e ora” della vita, ma questa inadeguatezza è anche la sua forza, perché non presume di cambiare il filo teso degli eventi e ancor meno di guidarlo, o controllarlo. Il nostro artista sa bene che gli eventi da cui dovrebbe dipendere il nostro destino, succedono la prima volta come parodia di se stessi. Cella, sia che porti sulla tela o nello spazio, i suoi personaggi è implacabile, ma anche ricco di tenerezza per le sue creature. La sua ironia è dunque il quotidiano che fa lo sgambetto al concetto vulgato di “bellezza”, è l’immediatezza delle cose o delle figure, che corregge la malinconia dello spirito e la rigidezza dei contegni. Credo che i personaggi di Cella possono essere definiti aforismi figurati e concettuali, in quanto ogni suo lavoro si offre come alla unilateralità dei comportamenti, e colpisce il mito stesso della “verità”, costringendo il pensiero ad andare oltre, ad abbandonare ogni stabile certezza.
Un’opera sicuramente molto significativa, nell’intero corpus della ricerca di Cella, è una delle sculture che vediamo in questa personale – costruite in vetroresina in modo da suggerire cioccolata o gelato, che si squaglia al sole – forse la più inquietante: “Icaro, il ragazzo dalle gambe di cera” (2005), essa ci sembra la metafora dell’intelletto divenuto insensato, dell’immaginazione degenerata (tipica di molti uomini o giovani d’oggi), personificazione mitica di una deformazione (mania di grandezza, eccesso) della sfera psichica – in questo caso collocata nelle gambe che si sono ironicamente sciolte – caratterizzata dall’esaltazione sentimentale e fatua nei confronti dello spirito. Icaro rappresenta il nevrotico (si guardi il volto) e la sua funebre sorte. Nondimeno l’opera “Ex capo” (2005), un dittatore che ha perso violentemente la testa, e quindi anche il potere, oppure “Vite parallele” (2005), immagine del paradosso grottesco di un uomo vanesio, superficiale, un pallone gonfiato, che gioca con la propria immagine sgonfiata, morta, prefigurando una prossima fine inevitabile quanto dovuta, rappresentano un mondo che conosciamo bene.
Un altro aspetto inquietante dei lavori di Cella sono indubbiamente i “volti”, in cui egli sembra la “faccia” degli uomini, tentando di rendere trasparente ciò che normalmente è opaco e oscuro. Anche il nostro artista, come Arnheim, sa che il nostro cervello non memorizza la faccia in modo fedele, m,a seguendo una sorta di stenografia visiva, nasce talora una caricatura, in cui sono esagerati alcuni tratti del volto a svantaggio degli altri. Il quadro “ “Spero, confido e credo” (che il pittore chiosa con la scritta “Il vero volto di Gesù), mostra un giovane biondo e sorridente, aureolato di fiammelle, le spalle a campana, con gli occhi irrimediabilmente strabici, le sopracciglia di Frida Kalo, impegnato in un analisi Junghiana, che noi usando, un “sapere indiziario”, definiremmo una persona in transito dai segni fisici ai segni del nulla. In questa direzione destabilizzante del senso del “sacro” va il delizioso quadro fatto di piccoli ex voto in cui minuscoli santi e martiri sono impegnati a fare miracoli infantilmente truculenti.
Un ciuffo biondo al vento e un volto teso in una smorfia di godimento nello slancio della corsa, sono “segni” tristemente tipici del giovane del quadro: “Muscoli in libertà” (2005), uno di quei “moderns primitives”, con colletto bianco e cravatta al vento che nei loro muscoli a vista (privati della pelle) cercano un involucro per un desiderato corpo statuario, immagine dell’io somatico, un modo cruento per significare una situazione in cui si differenzia il proprio sé degli altri, che quindi non è più brutto imprigionato, o inadeguato (a che cosa?). la pelle, come vuole la psicologia contemporanea, è il campo di battaglia del caos interiore, lo spazio dove vengono a galla i problemi che il corpo racchiude con tanta ostinazione. La malattia della pelle è visibile anche in tre quadri di tutt’altro tema: “strano ma vero” (2005) in cui la natura, e per essa le piante, le verdure, come colpite da un virus mortale s deformano guidate da ibridazioni perverse, volute da uno scienziato di biotecnologia, improvvisamente impazzito, che ha creato creature verdi, capaci di emettere umori sanguigni e tentacoli che stanno avvolgendo e trasformando, ormai anche l’uomo, lo contagiano, condannandolo a diventare un “doppio” irrecuperabile di loro stesse. Troviamo gli stessi segni di un DNA degenerato anche in “pianta fertile” in cui la testa di un uomo diventa un interminabile cactus, mentre nella scultura: “Pianta mannara”, in cui una superfetazione di un corpo termina con una piccolissima testa di un licantropo.
Cella vivendo il suo lavoro con una corrosiva ironia, un umorismo anarchico, in fondo ci dice che l’uomo di oggi personifica un’infanzia che governa per sempre la sua vita, che necessariamente prende forma giocando.
Marisa VESCOVO – 2005 – Mostra Studio Vigato - Alessandria
Maurizio
SCIACCALUGA – 2002 - Galleria Cilena - Milano
Dalla Hit Parade dei dischi più venduti all’elenco annuale dei maggiori contribuenti fiscali, dal Pallone d’oro per il calciatore più bravo d’Europa alla lista nera dei quindici terroristi più ricercati del pianeta, la società contemporanea è schiava delle classifiche. Il voto è la sua droga, stilare graduatorie e percentuali è la dose quotidiana di morfina che allevia ogni male. Tutto deve essere catalogato in ordine crescente o decrescente, il sunto di ogni discussione finisce sempre per essere podio, positivo o negativo a seconda dei casi e degli argomenti. Ci sono l’arbitro più affidabile del campionato e l’attentato più sanguinose della storia, il miglior rimbalzista dell’NBA e la donna più desiderata dagli italiani, l’attrice meno elegante del festival e il politico più inquisito della recente maggioranza di governo (e questa è davvero una bella lotta!). il mondo intero è dei recordman, chiunque – e non soltanto chi si occupa di programmi televisivi – deve dar retta a audience e share. Sia dei goleador che dei serial killer conta soprattutto il più prolifico. L’ambiente dell’arte ovviamente non fa eccezione, e adora supino i top lot, gli artisti più gettonati, i girasoli più pagati e i video meno comprensibili e peggio realizzati.
Gianni Cella, alla sua prima personale dopo la fuoriuscita dal gruppo Plumcake, di cui ha fatto parte per quasi vent’anni, traduce in opere questa furiosa classificomania dei tempi recenti, mettendone in risalto la futilità e l’assoluta inattendibilità. Le sue graduatorie sono tra le pochissime che, per ora, non hanno trovato spazio in tivù, sui giornali o in internet. Sono quelle che, uniche, i media ancora ci risparmiano: al posto delle veline più spogliate dei calendari ci sono fratelli più stupidi del mondo, in sostituzione dei dieci divi più richiesti di Hollywood compaiono i tre ragazzi più buoni dell’universo, invece che la Falchi, la Ferilli e la Marini si vedono i palloni più gonfiati del Belpaese (che ci sia qualche allusione all’imponente ritorno di fiamma per maggiorate e siliconi?). La serie realizzata dall’artista lombardo, dalle Tre piante più intelligenti del mondo ai Dieci quadretti più belli del mondo, sono l’inutilità fatta ordinamento serioso, il paradosso letto come discussione logica, l’assurdità trasformata in classificazione rigorosa. A volte l’arte mette a fuoco gli aspetti più caratteristici del periodo storico di cui si nutre, e le sculture di Cella evidenziano il vuoto, truccato da filosofia, che caratterizza il millennio appena inaugurato. In fondo, siamo o non siamo nel grande delta del Pensiero debole? Altre volte l’arte anticipa e predice il futuro, anche con fare preoccupato, e i quadretti del Plumcake transfuga preannunciano i valori, i costumi e i criteri della società che verrà. Show must go on, anche e soprattutto a discapito dell’itelligenza. E podio e premiazione fanno sempre spettacolo. D’altra parte, se già oggi la top model Clarissa Burt è chiamata in televisione (Porta a Porta) a parlare di terrorismo mediorientale, se la cantante melopatetica Iva Zanicchi volta le leggi in parlamento, se i decerebrati vincitori del Grande Fratello contano innumerevoli fan, con non credere al talento visionario di Cella? Tra non molto converrà perfino essere più stupidi, più buoni, più gonfiati degli altri; basterà entrare in classifica e l’avvenire sarà assicurato. Perlomeno finchè qualcuno non supererà lo score.
Lo stile dell’artista, nato nel 1953 a Pavia, dove tuttora risiede, ricorda la comicitò demenziale e sferzante dei Monthy Pyton, o gli sproloqui surreali e sovversivi di Groucho Marx. Come nei lavori firmati in precedenza col gruppo, è iconoclasta, cattivo, spesso spiacevole. Non cerca la pulizia, la raffinatezza, il tocco sopraffino, piuttosto preferisce il colpo grossolano, il taglio con l’accetta. E’ una bad painting che non si pasce di giustificazioni concettuali, ma che pretende paradossalmente d’essere etichettata come iperrealismo. Guarda una società allo sfascio, marcia e decrepita e la ritrae, come ne fosse fotografia. La falsità patinata , il degrado spirituale, la pochezza imperante, l’inutilità dei temi esistono nella realtà, e come si presentano nel mondo cos’ si specchiano e riflettono nelle opere dell’artista. Il tempo dei talk show, dei quiz show, dei motor show, dei peep show è perfettamente riassunto nei cicli/graduatorie. Entro in classifica dunque sono. Anche a discapito di qualità decisamente più vere e profonde. Cella echeggia i colori fulgidi, le forme appariscenti, i gusti eccessivi e i linguaggi cicaliggianti di questi tempi tanti illuminati a giorno dai neon quanto neri e bui nell’anima, e per farlo usa gli strumenti che condivide con altri artisti della sua generazione. Pesca nell’immaginario favolistico, adotta il tratto dei cartoon, si avvale di giocattoli e slogan pubblicitari, percorre una via di mezzo tra new media e ready-made. Come il libro di Nick Hornby Alt fedeltà, anch’esso dominato dalle classifiche più ovvie e astruse, messe in atto solo per nascondere e procrastinare il vuoto, il lavoro di Gianni Cella è toccante, amaro, sarcastico e, soprattutto, divertente. Mettein scena le illusioni e i disinganni di una generazione (di artisti tra i quaranta e i cinquanta) piuttosto provata dagli eventi. Ma ancora piena di voglia di vivere.
Maurizio SCIACCALUGA – 2002 - Mostra Galleria M.Cilena - Milano
Claudio
RIZZI – 2004 – Generazione '50 – Museo Bodini – Gemonio
C’era una volta una favola. Ma era scialba. Anzi, forse triste. Pareva un viandante intriso di nebbia, umido dalle ossa allo sguardo.
Una fiaba scolorita, appassita, come se il bianco e nero della realtà avesse sconfitto i colori della metafora. Allora Gianni Cella si mise nei suoi panni. Lui era capace di cambiare i panni addosso. Per anni aveva vissuto dentro un Plumcake. Certo, all’inizio l’avventura doveva essere prodiga di piacere. Chissà le leccornie. Ma poi trigliceridi e colesterolo avevano sopito la sofficità del divertimento; la meraviglia si era tradotta in banalità quotidiana e il sapore dell’inventiva si ea tramutato forse nella nausea da zuccheri. Allora Gianni Cella era balzato fuori dal Plumcake, aveva salutato tutti e si era incamminato lungo il fiume, a respirare afa e zanzare in estate, poi brume e brine in inverno, bagliori di rumori laggiù, dove la strada percorre il buio e conduce oltre gli argini di bosco. Ma era tornato a respirare. Lontano dalle uvette, dalle mandorle, dalla panna e da tutte le tentazioni che invadono banconi e vetrine delle pasticcerie. Era tornato libero, forse senza nemmeno una goccia di nostalgia. Quando vide la favola, non si accorse di entrare, saltò dentro e basta. Poi capì e sorrise. Così la favola riprese colorito. E comparvero tinte pastello. E anche la luna si stupì ma non disse nulla perché lei non perde mai il magico aplomb.
Stretti come erano, Gianni e la favola, uno nell’altra, una sensazione stretta, il mondo, intorno e loro come un0anima sola, forse la mano del destino, forse una volontà divina, non si sa ma si sa che nacquero altre favole. Molte. I suoi quadri sono un gioco solitario che appartiene a tutti. Sono la dissimulazione della tristezza nell’apparenza della risata. Sono il pagliaccio che muore sulla scena e tutti dicono com’è bravo. Non devono telefonare per dire al padre dove sono andati a finire. Sono a casa loro. Ovunque. Perché una metafora favoleggiante nel regno della falsità è sempre al posto giusto. Si propone come una cosa ma in realtà ne dice un’altra: proprio come loro, gli abitanti del mondo; è in perfetta coerenza.
Cella sa che da questo è il destino dei suoi figli e per questo continua a farne altri. Colorati, molli come le caramelle dell’infanzia, i tratti deformati come avviene quando i bambini si guardano nello specchio magico. Sorridenti, ridanciani, simpatici. Eppure sono metafora. È da tradurre quel loro aspetto ritratto in linea tonda e pingue. Da interpretare quella espressività un poco ebete eppure a pancia piena. Da leggere quel culto del bello che i personaggi di Cella esibiscono con arguta convinzione. Un tempo il buffone di corte, divertendo, lanciava stilettate ai potenti.
Dicono che il mondo non cambia mai. Occorre crederlo, se è vero che Gianni, per dire alcune cose, ha dovuto entrare in una favola.
Claudio RIZZI – 2004 – Generazione anni 50 – Museo Civico Bodini – Gemonio (VA)
IL
SECONDO DORMIENTE: GIANNI CELLA
Per due chiacchere con Chiara Argenteri
Gianni, quando hai capito che avresti fatto l’artista?
Subito! Mio papà faceva l’imbianchino, e i da moccioso (avevo si e no cinque anni) entravo nel deposito, rubavo la pittura e cominciavo a imbrattare pannelli, cartone, perfino il muro. Mio papà non si arrabbiava, al contrario, mi incitava :” Bravo!, mi diceva, “Sei proprio bravo”…Mi sarò mica esaltato?
Chi vorresti essere se non fossi Gianni Cella, e perché?
Vorrei essere Pieter Pan Laer (il pittore olandese del Seicento), detto anche il Bamboccio, alla guida del gruppo dei Bamboccianti. Solo perché mi piace il nome, è così… onomatopeico.
Tre parole per descriverti come uomo.
Inadeguato, confuso, approssimativo.
Tre parole per descriverti come artista.
Inadeguato, inadeguato, inadeguato.
Tre parole per descrivere l’arte contemporanea.
(Idealmente) bella, e basta.
Se paragonassi la tua arte a un cibo. Quale sarebbe?
Un minestrone, vario e (in)completo.
Se fosse una donna, come sarebbe?
Una porca idealizzata.
Cosa ami di più nel tuo mestiere?
Il lusso, il lusso che mi concedo. È una fortuna lo so, e di lavori ne ho fatti tanti.
Cosa detesti, invece?
Niente, Credo proprio che non cambierei nulla. Non voglio fare il moralista, ma anche le situazioni negative, i problemi, gli errori, le opere che vengono diversamente da come vorresti.. sono tutte cose che aiutano a crescere, artisticamente parlando quantomeno. È lo scotto che si paga a voler sperimentare. E credo che non si possa, mai, prescindere dalla sperimentazione: se rimani sempre sulla stessa strada, allora sei un artigiano, bravo quanto vuoi, ma pur sempre un artigiano.
Qual è l’opera che avresti voluto fare? La più bella della storia, e perché?
“La scarola in valigia”, di Duchamp, perché c’è dentro tutto, miniaturizzato.
E la più brutta?
Non esiste. A me piacciano tutte, anche quelle più retoriche, io le apprezzo. Tipo il Realismo socialista, è meraviglioso, meravigliosamente tronfio!
Qual è stata la tua prima opera?
Le improvvisazioni sul muro che facevo da bambino.
E quella di cui vai più fiero?
Non saprei rispondere, non ce l’ho un’opera preferita. Semmai è il m io corpus. Per intero.
C’è una tua opera che ti rappresenta più di altre?
Mi viene da rispondere, “l’ultima che ho fatto”, per via della sperimentazione del lavoro.
E la mostra più brutta?
Quelle costante, ma nemmeno vado a vederle.
Cosa fai prima di iniziare un lavoro?
Io lavoro sempre. Penso, ovvero, rubo, immagazzino… non stacco mai la spina. Anche quando dormo (e dormo poco e in modo frammentario, a volte mi sveglio con un’idea e la appunto su un block notes. Molte si perdono, altre si recuperano.
Come lavori? Come nasce l’idea, come si sviluppa…
Sempre da una suggestione verbale, da un nome, frase, espressione che ho sentito in giro. Un po’ come faceva Duchamp, io non dipingo per dipingere: è il titolo che fa l’opera, come in “strano ma vero”, o “Muscoli in libertà”, prima viene quello, l’idea col suo titolo, e poi penso a come realizzarla.
IL SECONDO DORMIENTE: GIANNI CELLA
Carlo
Pesce - 2009 - UN QUINDICENNE RINCHIUSO IN CELLA
Il bello è brutto e
il brutto è bello...
W. Shakespeare,
Macbeth
Stare di fronte all’opera di Gianni Cella è un pò come se ci si trovasse a leggere certi fumetti, quelli che raccontano delle storie strambe, al limite dell’incredibile, storie nelle quali il protagonista si muove su fondali privi di senso, frutto di una fantasia incontenibile che si esplicita in forme e colori allucinanti. Tutto questo si materializza in una sorta di circo al cui centro della pista, illuminati da potenti fasci di luce, si muovono i suoi meravigliosi freaks.
Cella si trova nella posizione di chi osserva il mondo adoperando una lente che gli impedisce di vedere la realtà come essa è. Egli è una sorta di illustratore che si butta sugli uomini e li ricrea come caricature.
Non è un caso che l’aspetto dei suoi personaggi risulti instabile e capace di far sorridere. È un artista intrigante, dotato di ironia dissacrante e corrosiva. Cella è un misto di suggestioni anarcoidi, raccoglie spunti disparati, nel suo lavoro si susseguono echi di certo primitivismo, del lavoro della Kalho, di rielaborazione fumettistica Pop e di certo cinema alla Jodorowsky o alla Lynch. È un artista che piace perchè colpisce senza pungere, ma facendo male.
Dario Fo ci ricorda che la satira è un genere di composizione poetica a carattere moralistico o comico che mette in risalto, con espressioni che vanno dall’ironia pacata e discorsiva fino allo scherno e all’inventiva, costumi o atteggiamenti comuni a tutti gli uomini o tipici di una categoria o di un solo individuo.
Sulla scia di una definizione come questa, si è esteso il concetto di satira alla critica più o meno feroce verso aspetti o personaggi della vita contemporanea.
Cella, in riferimento al suo lavoro da artista, deve essere inteso come autore satirico. Infatti, nella sua opera compaiono elementi che rimandano sarcasticamente alla realtà quotidiana, elementi carichi di ironia che, seppure con spirito apparentemente leggero, attirano lo sguardo dell’osservatore e lo costringono a riflettere sull’aspetto non prettamente superficiale delle sue pitture e sculture. Ciò che emerge è spesso sconfortante, è la proiezione di un mondo privo di umanità, con caricature di personaggi antropomorfi che nella loro oscenità recitano nell’universo immaginifico di Cella.
È complicato identificare le barocche simbologie ideate da Gianni Cella. Egli è un giocherellone che si diverte a creare complicate impalcature dadaiste, sfruttando pere la costruzione dei suoi lavori anche la possibilità offerte dalle parole. Cella è un maestro della retorica, crea con ossimori – accostamenti di parole che esprimono concetti contrari – e sinestesia – associazioni tra due parole appartenenti a sfere sensoriali diverse – e con nuovi termini di confronto, insiste con perizia sulla forza dell’immagine, producendo artefatti belli che rappresentano il brutto. Cella, in questo modo, costringe a pronunciare un pregiudizio estetico sulla bruttezza, dal momento che il brutto provoca sicuramente una reazione. Come ricorda Umberto Eco nella sua “Storia della bruttezza”, esiste un brutto in sé e un brutto formale, cioè un brutto determinato dallo squilibrio delle due parti. Cella sembra fare sua questa constatazione e riproduce “strutture” impostate secondo un cliché che mira a rappresentare bene la bruttezza, ricevendo però il giusto valore estetico determinato dalla capacità dell’artista. Lasciando da parte la serie delle “maschere” – sia in quanto tali, sia sottoforma di emisferi terrestri, pinocchi alieni o cacti - , attraverso le quali l’artista riesce ad esternare la sua verve surrealista e più decisamente ossimorica, le opere più stimolanti sono quelle determinate dall’associazione sinestetica, come “Candelabro mannaro”. L’aggettivo mannaro è sempre associato al sostantivo lupo, in particolare nel racconto di storie dalle sfumature horror.
Pensare di trasformare un candelabro in licantropo, o in qualcosa di simile, è già operazione di straordinaria creatività. In più, il volto dell’uomo lupo dal quale si dipartono i bracci reggilume è simile a quello di Lon Chaney jr., l’attore che interpretò questo famosissimo personaggio. In questo caso, Cella adopera un’icona del cinema, rielaborando in chiave personale l’estetica Pop, ironizzando su particolari che riducono il divo in uno scherzo della natura.
Ricordando un’intervista fattagli qualche anno fa, in ogni suo personaggio c’è un po’ di Gianni Cella. Egli, diceva, si sente perdente, si sente inadeguato, sente inutile lo sforzo di dipingere bene, di scolpire bene. La sua arte riprende degli elementi popolari, ne riprende per certi versi, l’ingenuità, un’ingenuità che sembra essere stata elaborata molto tempo fa, nell’infanzia, e si sia cementata nello spirito di Cella scombussolandoglielo, regalandolo in un limbo dal quale egli si rifiuta di uscire. Infatti l’artista dice di ragionare come un’adolescente, come un ragazzo di quindici anni imprigionato nel corpo di un adulto.
In questo modo si spiega l’approccio coerente alla figura, sproporzionata, spezzata, forzatamente allegra anche quando subisce ogni sorta di mutilazione o modifica del corpo.
Testo di Carlo Pesce in occasione della personale a Casale Monferrato 2009